Ricordo di un Carrista
“Spesso, nella vita, mi accade di
rivedere all’improvviso la Bandiera del mio Reggimento ardere in fiamme. Mi
accade in pieno giorno o al momento d’addormentarmi o anche nell’ora mattutina del
risveglio. E’ qualcosa di magico ed inesplicabile. Rivedo quella Bandiera
avvampare in un cielo di battaglia, tenuta dalla mano del mio Comandante di
Reggimento, in piedi al centro del caposaldo di El Adem, in mezzo ad un uragano
di esplosioni di granate, tra cadaveri arsi ed insanguinati di carristi e
gruppi di carri M/11 e L/3 in postazione fissa, ridotti a bare di fuoco, nelle
quali bruciavano con le loro armi e la loro giovinezza altri commilitoni,
ufficiali, sottufficiali e carristi. Credo che, ossessionato come sono, rivedrò
quella Bandiera ardere nel cielo anche in punto di morte. Perché essa è il
ricordo più vivo e palpitante di tutta la mia vita, quello che mi ha dato
l’orgoglio di aver fatto parte del 4° Carristi e del suo I Battaglione, quello
che mi dette forza nella prigionia e che mi ha accompagnato ogni giorno in
questi lunghi anni nella vita, fino ad oggi”.
E’ vero, Marini. Quel ricordo ti accompagnerà fino alla
morte perchè non c’è nulla di più bello e sublime di una Bandiera che nel corso
di una lotta viene bruciata tra i carri colpiti e in fiamme e gli equipaggi
caduti, feriti o moribondi, per non farla cadere nelle mani del nemico. La
Bandiera del tuo Reggimento rimarrà in eterno come simbolo di un onore mai
venuto meno. E se tu sei ossessionato dal quel ricordo, lo sei dunque per un
motivo ben preciso. La tua giovinezza è legata ad un fatto memorabile, che ha
spalancato al 4° carri le porte della leggenda e dà alla vita di tutti coloro
che quel fatto hanno vissuto un valore eccezionale. Questo valore, tu tienilo
gelosamente custodito nel tuo animo come in uno scrigno e fanne parte ai tuoi,
agli altri, solo con brevi allusioni o con frasi appena accennate, come dovessi
distribuire oro.
XXXXXXXX
L’ex Caporal Maggiore carrista Primo MARINI, classe 1920, veronese, pilota di
carro M/11 durante la guerra in A.S., e ora anziano oltre i sessanta, mi guarda
con gli occhi che non so se siano di un incredulo o di un uomo pieno di
raffrenata emozione. Io gli stringo la mano. Gliela stringo forte e a lungo,
prima di lasciarci dopo il nostro incontro in un Raduno carrista a Roma,
avvenuto a tanti anni di distanza da quel “fatto”. Perché io so come quel
“fatto” avvenne. Come so che, date le premesse, esso non poteva svolgersi
altrimenti. Come pure devo confessare che anch’io penso spesso a quella
Bandiera in fiamme. Il ricordo mi viene alla mente come una luce folgorante,
come un ideale che brilla nel grigiore dell’esistenza. Ascoltatemi, vi narrerò
in breve il fatto con le premesse. Poi potrete giudicare da voi se il ricordo
dell’ex caporal maggiore carrista sia i lui, per forze di cose, vivo e
palpitante e se il “fatto” cui partecipò non sia davvero bello e sublime come
una leggenda.
Rinaldo Panetta Caposaldo “Aresca” Storia del I Battaglione del 4°
Reggimento Carristi “Medaglia d’Oro al V.M.” 1984 |
INDICE
1. Una notte drammatica
2. A Sidi El Barrani
3. La giornata di Alam-Abu Al Jleiust
4. Ritorno in
Marmarica
5. Ancora quella notte drammatica
6. Un ordine da Tobruk
7. La fine del II Battaglione
8. L’organizzazione della difesa
9. Fuoco dal cielo e dal deserto
10. L’inizio dell’attacco
11.L’infiltrazione alle spalle
12. Ore di fuoco
13. S’avvicina la fine
14. Ad oltranza
15. Bandiera in fiamme
Allegati
:
A)
Grafico del “Caposaldo Aresca”;
B)
Specchio delle perdite dal 10 luglio 1940 al 21 gennaio 1941;
c)
Specchio delle perdite del 21 gennaio 1941.
1.
Una
notte drammatica
Era una notte drammatica quella del 15 dicembre 1940 su tutta
la fascia costiera del deserto marmarico, da Bardia, presso il confine
libico-egiziano, a Tobruk e oltre. Sulla via Balbia stavano ripiegando, in
disordine caotico, mentre nel cielo ronzavano apparecchio inglesi che
bombardavano la litoranea, lunghe colonne di artiglieria di ogni calibro, di
automezzi sferraglianti, molti condotti a rimorchio, con a bordo soldati laceri
ed insanguinati. Era quel che rimaneva della X Armata italiana cje il 15 settembre precedente, partita da Bardia, aveva in
una veloce offensiva raggiunta e conquistata Sidi El Barrani, nel deserto
egiziano, ove era poi rimasta attestata fino al 9 dicembre, in attesa di
riprendere l’avanzata verso Marsa Matruh e
Alessandria. Ma in quel giorno, al potente attacco sferrato dagli Inglesi con
centinaia di bocche da fuoco e con apocalittici bombardamenti aerei, i
caposaldi prima linea, dopo una resistenza a oltranza, erano stati sopraffatti
dall’avanzata di un diluvio di carri armati, che si erano avventati sulle linee
arretrate, disorganizzandole e sorpassandole, lasciandosi alle spalle decine di
migliaia di prigionieri. Ripiegando in fretta e furia per il deserto e
soprattutto per la via costiera, le fanterie e artiglierie superstiti di quella
disfatta, inseguite, bombardate e mitragliate dall’aviazione inglese, avevano
raggiunto Buq-Buq, il Passo Alfaya, quindi Balbia
,proseguendo poi alla volta di Tobruk, intasando la via Balbia. In coda alla
colonna in ripiegamento procedeva, a protezione delle truppe, il 4° Reggimento
Carristi, l’ultimo reparto che aveva lasciato la piazzaforte di Bardia, ormai
accerchiata. Comandato dal colonnello
Pietro Aresca, uomo deciso e
dalle idee lucide, il Reggimento disponeva solo del suo I Battaglione Carri
M/11 (carri medi da 11 ton.), ormai tutti logori e in avaria per le lunghe e
dure prove cui l’intero Reggimento era stato sottoposto in sei mesi nel deserto
marmarico.
Praticamente solo 5 carri erano efficienti e andavano con
i propri mezzi. Gli altri erano condotti a rimorchio.
Sbarcato a Bengasi l’8 luglio con il I e II Battaglione,
forti di 37 carri M/11 ciascuno, e comandati rispettivamente dal maggiore Ceva e dal maggiore Campanile, il Reggimento aveva sostenuto nei mesi di luglio e agosto e
nei primi di settembre, spesso in mezzo a uragani di sabbia, molti duri
combattimenti contro mezzi corazzati e blindati nemici che facevano quasi ogni
giorno incursioni nelle linee di confine, attaccando i locali capisaldi. La sua
azione era stata limitata dal fatto che gli M/11 erano privi di torretta
girevole e disponevano di un semplice cannone da 37 anticarro e di due
mitragliatrici Breda 38 cal. 9, collocati l’uno e le altre in casamatta, con un
breve settore di tiro. Quando si doveva far fuoco, quindi, i carri dovevano
fermarsi, puntare, sparare e poi riprendere a corsa in avanti fino ad una
prossima sosta, “elastica” e fulminea quanto si vuole, ma sempre pericolosa.
Per difendersi da attacchi alle spalle occorreva girare il carro, sollevando
inoltre nubi di polvere. I mezzi inglese, invece, carri e autoblinde, il cannone
e le mitragliatrici le avevano in torretta girevole, così potevano fa fuoco a
volontà in qualsiasi momento.
Il Reggimento, in tal modo, aveva subito perdite, ma con
la sua continua e ostinata azione offensiva, e giocando d’astuzia, aveva
ricacciato indietro e speso distrutto non pochi mezzi nemici. Il primo sangue
era stato versato il giorno 5 agosto allorché, in un decisivo scontro con una
batteria mobile inglese da 88 mm., protetta da carri armati e autoblindo, arano
caduti il sottotenente Luigi Pagani,
i carristi Luigi Merigo, Tersilio Duo, Fausto Copetà
e Tarcisio Zaffardi, tutti del I Battaglione.
2.
A Sidi
El Barrani
Il 9 settembre, iniziata l’avanzata sulla strada costiera,
i carri M/11 del 4°, quali principali elementi del Reggimento Corazzato
“Aresca” (4° Carristi, XXI Battaglione Carri L, una batteria da 20 mm, una
compagnia motociclisti e un plotone chimico), avevano aperto il passo alla
fanteria e difeso le colonne autocarrate dagli attacchi al fianco portati dai
carri armati e dalle artiglierie mobili avversarie provenienti dal deserto
egiziano. Una vota poi terminata l’azione, sarebbe stato necessario provvedere
a una accurata manutenzione dei mezzi e delle armi. Ma non vi fu tempo. Senza
sosta i due Battaglioni erano stati impiegati per continue puntate difensive in
avanti, oltre Sidi El Barrani, durante le quali avevano sostenuto altri
combattimenti con i carri armati e le autoblindo inglesi, sempre superiori per
numero e per volume di fuoco, oltre che più agili e manovrieri.
Il 22 ottobre i due Battaglioni, spediti a Samjat Ma
Abidia, una località a 15 km a sud di Sidi El Barrani, furono disposti a
caposaldo: I Battaglione a sinistra, II Battaglione a destra. Da tale località
i carristi partivano come razzi, in seguito ad allarme, per raggiungere i
capisaldi delle divisioni di prima schiera. Praticamente erano sempre in
movimento, ora con le Divisioni “Libiche”, ora con la “XXIII Marzo”, ora con il
“Gruppo Maletti”. I motori ormai picchiavano in testa, i pistoni ballavano nei
cilindri con strani accompagnamenti di bronzine fuse. Ma grazie all’operosità,
all’inventiva, agli “arrangiamenti” e al sacrificio dei sottufficiali e dei
carristi dell’officina reggimentale venuti al seguito, i carri andavano: questo
era l’importante. E, come non arrivavano pezzi di ricambio, così non arrivavano
carristi in sostituzione di quelli morti, feriti o malati. In quel deserto
senz’acqua, con la morte che minaccia d’ogni lato (perfino dai pozi avvelenati dagli inglesi), l’Italia pareva lontano
migliaia di chilometri, un sogno di gente ubriaca di sporca acqua di autobotte,
bevuta nel deserto spesso durante il ghibli, mescolata alla sabbia.
3.
La
giornata di Adam-Abu Al Jlejust
Il 5 novembre fu una giornata campale per il II
Battaglione. Raggiunto la sera prima il caposaldo della “Seconda Libica” a El Tunnar, il mattino di quel giorno una colonna comandata dal
colonnello Gloria e rinforzata dagli M/11 del maggiore Campanile, si recò in ricognizione presso la località di
Bir Emba, distante 20 km da Sidi El Barrani, per sapere se il nemico aveva
occupato lì delle posizioni e con quali forze. Non si doveva attaccare
combattimento.
Fu accertato che gli inglesi si trovavano sul posto e lo
confermarono subito prendendo a far fuoco sia sulla fanteria autocarrata che
sugli M/11, sparando un diluvio di fuoco con i carri medi e leggeri, con
autoblindo e con una batteria da 88 mm che i carristi già conoscevano e
chiamavano “fantasma” perché,
mobilissima, si spostava continuamente per non farsi individuare. Il pericolo
di un annientamento si rivelò imminente. Il colonnello Gloria
dette ordini di ripiegare. Fu il II Battaglione che, in retroguardia, voltando
continuamente i carri,, sostenne temerariamente l’attacco dei mezzi nemici
preponderanti per numero e potenza di armi, permettendo alla colonna di
retrocedere ordinatamente. In tale rischiosa azione, un carro, centrato da una
cannonata, fu colpito e distrutto. Caddero
tre carristi e il tenente
Lizzini, comandante di plotone, mentre altri
carri incassavano varie cannonate senza gravi conseguenze per gli equipaggi ma
non così per il materiale.
Il 19 novembre toccò al I Battaglione.
Segnalata due giorni prima dalla nostra aviazione una
ancora più grossa concentrazione di carri armati nemici sempre a Bir Emba, fu
dato ordine dal Comando superiore al generale Maletti
di mandare una colonna di libici e nazionali, muniti di pezzi anticarro, a
controllare se tale notizia era vera.
Al generale
Maletti venne inviato d’urgenza, in
rinforzo, il I Battaglione Carri. Il mattino del 19, alle ore 10, divisa in due
gruppi comandati rispettivamente dal colonnello Gloria e
dal tenente colonnello Criniti, la colonna si mosse. Criniti
marciava in testa, preceduto dalla 1^ compagnia Carri del capitano Manganaro e dalla 2^ compagnia del tenente Locatelli. Su un carro del sottotenente Basso, comandante di plotone era anche il tenente D’Agata, aiutante maggiore del I
Battaglione, che aveva chiesto e ottenuto, dopo altre domande simili andate a
vuoto, di partecipare a un’azione di guerra. Era un temerario, un ufficiale
che, dato lo spirito di affiatamento, di ardimento e di emulazione che esisteva
nel Battaglione, non poteva sopportare l’idea di non poter far parte di un
equipaggio combattente.
Dopo un’ora e mezzo di marcia, giunta in località Alam Abu Jlejust, la colonna fu avvistata da decine
di carri armati e autoblindo inglesi, calcolati poi in due battaglioni dei
primi e due delle seconde, che presero a martellarla con tutti i loro pezzi e
le loro mitragliatrici, mentre tentavano di aggirarle. Le artiglierie anticarro
di Criniti incominciarono a rispondere al fuoco, sparando a zero sui
mezzi avversai; le due compagnie M/11, invece, giocando d’astuzia e di
coraggio, mentre prendevano quei mezzi sotto il fuoco dei loro 37,
attraversavano spesso la loro direzione di marcia per impedire che potessero
circondare la colonna. Era, quello, un gioco pericoloso e pazzesco. Ma chi si
sarebbe stancato per primo?
Lo scontro si trasformò ben presto in un infernale e
polveroso carosello, tanto che, dopo oltre un’ora di lotta, le artiglieri di Criniti dovettero tacere per non colpire anche gli M/11, molti dei
quali, pur essendo stati centrati dagli avversari, continuavano a combattere:
trenta Carri M/11 contro cento e più di cento carri e autoblindo inglesi;
trenta sferraglianti M/11, ripetiamo, logori dalle marce e dai tanti
combattimenti precedenti, con equipaggi che non avevano mai avuto riposo,
sporchi, assetati, barbuti, stanchi oltre ogni limite e tenuti su solo da quel
misterioso fluido che scaturiva dalle loro “fiamme rosse”.
Non si tratta qui di retorica: quella era una realtà
precisa.
Fu la batteria da 88 quella che, in un successivo momento
dell’azione, serrando sotto, prese a tirare a zero sui carri italiani. Il tenente Locatelli, comandante della 2^ compagnia,
mentre si sporgeva fuori dalla casamatta per incitare ai suoi con la mano (i
carri italiani non avevano radio a bordo) di lanciarsi su quegli 88, venne
colpito in pieno da una granata e il suo carro esplose, mandando all’aria la
corazza, l’ufficiale e l’equipaggio. Il sottotenente Todeschini, comandante di plotone, benché sanguinante da avrie ferite, visto la fine del comandante di compagnia e
degli altri membri dell’equipaggio, e sapendo che era un preciso dovere
“carrista” non lasciare mai al nemico i carri, anche se colpiti, nonostante
l’inferno di esplosione e nel tentativo disperato di salvare qualcuno, saltò
giù dal proprio carro per rimorchiare l’M/11 del tenente. Ma una granata
esplose nei suoi pressi e una grossa scheggia gli tagliò netta la gamba destra.
Rialzatosi con grande prontezza e forza d’animo, agganciò ugualmente al proprio
carro il cavo e ordinò al pilota di mettersi in moto. Ma il cavo si ruppe.
Saltando su una gamba sola, Todeschini si lanciò allora a raccogliere e
riportare in salvo prima il caporalmaggiore
Zino, poi il carrista Feudatari che erano rimasti colpiti anch’essi
dalla stessa esplosione, mentre erano intenti ad aiutarlo a mettere il cavo;
anche il tenente De Murtas comandante di altro plotone, uscì
dal suo per recuperare il carro del comandante di compagnia, ma rimase
anch’egli straziato da schegge di granata. Il sergente pilota Dianda, dopo avere incassato sette colpi, che avevano ucciso gli altri
due membri dell’equipaggio e ferito lui alla gola, alle braccia e alle gambe,
prese a portarsi alternativamente al cannone
e alla leva di guida, sparando fino a che perse coscienza per
l’eccessivo dissanguamento (1).
Il tenente
D’Agata, “aiutante maggiore” del
Battaglione, scorazzava su quell’infuocato campo di battaglia, seguito dal
carro del caporalmaggiore Bosatti. A bordo recava il sottotenente Basso, ucciso da una cannonata, ed egli ne
aveva preso il posto. Con Bosatti s’era messo d’accordo, a segni, di
far fuori la batteria da 88, aprendosi un varco tra i carri nemico. Era pazzia
la loro, o fredda e lucida incoscienza? O era l’azione della morte che dava
un’ebbrezza più che temerari ala combattimento? Compiuta una laboriosa ronda,
il varco fu d’un tratto aperto fra due autoblindo centrate contemporaneamente dai loro 37. I due corsero
in quarta con una gioia inarrestabile. Senonché a cento metri una granata
sparata a zero centrò e fece esplodere il carro dell’ufficiale, mentre un’altra
colpì il carro del graduato. Ma Bosatti ormai
si era lanciato e, continuando la sua corsa, andò a fracassarsi contro i
quattro pezzi da 88, travolgendoli uno dopo l’altro, rimanendo infine
immobilizzato e in fiamme presso l’ultimo.
Fu il segno della fine.
I carri e le autoblindo inglesi superstiti, martellate da
altri carri, volsero in fuga. Erano quasi le 17: sei ore di combattimento
furioso. La colonna Criniti era stata salvata dallo sfacelo, grazie all’azione
dei carristi del I Battaglione M/11.
La notte calò tragica sul deserto. Il suo buio era
arrossato dalle fiamme delle autoblindo e dei carri inglesi e italiani che
ardevano nella zona di Alam Abu Jlejust. Prezzo pagato dai carristi: caduti 2
ufficiali e 2 graduati, tenenti Locatelli
e D’Agata, sergente Cima e caporal maggiore Bosotti; feriti più o meno gravemente, 17 tra ufficiali e carristi;
prigionieri 3 sottufficiali e 1 graduato; 15 carri colpiti e danneggiati e 5
perduti nel furore della mischia (2).
Nella serata di quell’insanguinato 19 novembre, da
un’intercettazione radio fatta al Comando dell’Armata si apprese che un
comandante carrista inglese chiedeva che venissero approntati viveri di
conforto eccezionali per i suoi combattenti superstiti sfiniti dallo sforzo. Invece
molti dei feriti del I Battaglione carri M/11 rifiutarono di essere avviati
all’ospedale. Tre di essi nascosero, per più giorni, le loro ferite per non
abbandonare il reparto; la 1^ compagnia, ove il tenente Silvio Limauro, napoletano, aveva rischiato forte in un contrattacco condotto
alla “legionaria” con il suo ferratissimo plotone per salvare un altro plotone
rimasto accerchiato, per cui gli equipaggi gli s’erano legati per la vita e per
la morte. Lasciando il tenente per una “fesseria” di ferita, in un momento in
cui c’era bisogno di tutti, sarebbe equivalso ad una “vigliaccata”, che nessuno
si sarebbe sentito di commettere. Tanto spirito aveva sputo trasfondere
l’ufficiale nei suoi uomini.
All’alba del 21 novembre, gli equipaggio superstiti del I
Battaglione fecero ritorno al caposaldo del 4° Carristi, conducendo a
rimorchio, rispettando ad ogni costo la tradizione, i carri colpiti con gli
equipaggi caduti.
“So quelli che avete
fatto. – disse loro nell’accoglierli il colonnello Aresca – So quello che sarete ancora capaci di fare
per l’onore del Reggimento”.
Ma dopo aver detto queste parole vide che non c’era più
nulla da fare con quei carri dalle corazze lesionate per i colpi incassati,
traballanti e sferraglianti sui cingoli e rulli colpiti da cannonate e con i
motori sfruttati sino all’ultimo: c’era solo da buttarli ai ferri vecchi,
perché sarebbe stato impossibile impiegarli oltre. Impossibile sarebbe stato
affrontare con essi un altro combattimento come quello sostenuto a Alam Abu
Jlejust con i carri inglesi. In pratica il I Battaglione carri M/11 non
esisteva più e per esso doveva considerarsi conclusa la guerra in Africa
settentrionale.
Ma, come vedremo, era stato stabilito nel libro del
destino che proprio lo stesso I Battaglione Carri M/11 dove scrivere le pagine
più splendide del 4° Carristi. E con i suoi mezzi inefficienti. E il destino si
mise subito in moto.
4.
Ritorno
in Marmarica
Il 25 novembre il colonnello Aresca ricevè l’ordine di ripiegare, con
quel suo I Battaglione fuori uso, a Bardia per cercare di rimettere a posto,
ove possibile, qualche carro. E fu una lunga teoria di mezzi trainati a
rimorchio dagli autocarri Lancia RO quella che prese a ripercorrere la strada
costiera, con equipaggi che solo un’indomita volontà riusciva a tenere in
piedi. A guardia dello schieramento delle fanterie nel deserto egiziano, di
fronte al nemico, rimase il II Battaglione Carri del maggiore Campanile che, da Samiet Me Abidia, raggiunse
il lontano e isolato “Caposaldo
Maletti”. Erano in tutto 24 carri M/11,
logori anch’essi come sappiamo, che fronteggiavano i carri armati e le
autoblinde inglesi, dalla nostra aviazione segnalati sempre più numerosi; mezzi
che scorazzavano battendo con le loro armi senza sosta i nostri caposaldi,
dandosi il cambio ogni due o tre giorni, perché gli equipaggi potessero
riposare e i carri e le autoblindo essere convenientemente riparato o
sostituiti nelle officine nelle retrovie.
Ma torniamo al I Battaglione e al
Comando di Reggimento.
Rientrati in Cirenaica, da Bardia, in
seguito a nuovo ordine, essi raggiunsero il 2 dicembre Marsa Luck, ancora più
indietro, sempre con l’ordine e con la speranza di rimettere in efficienza
qualche carro, prima che fosse troppo tardi.
Ma non vi fu tregua.
Vi fu appena il tempo di sostituire
il maggiore Ceva, col maggiore Angelico Rossi, veterano dei carri d’assalto in Africa settentrionale e
ufficiale assai “ferrato” nel cuore e nello spirito. Non vi tregua perché il 10
dicembre il Comando Superiore ordinò che il 4°Carristi si riportasse di nuovo,
anche se con quel suo unico malridotto Battaglione, a Bardia. C’era una gran
confusione in giro: stromi di aerei inglesi bombardavano la Balbia, le piste,
Bardia, Tobruk. Voci di tragedia si sentivano ovunque sulle nostre truppe
schierate a Sidi El Barrani, al “Caposaldo Maletti”
e sul resto del fronte. Era un uragano quello che arrivava, travolgendo tutto
sotto la sua furia scatenata.
E il Ghibli prese, nello stesso
tempo, a imperversare con violenza.
Come abbiamo ricordato, il 9
precedente gli inglesi avevano dunque attaccato il nostro schieramento avanzato
a Sidi El Barrani e dintorni, travolgendolo. Ma, mentre quella sera del 10 le
artiglierie e le fanterie superstiti, sfuggite all’accerchiamento, risalivano
la strada costiera per raggiungere il confine libico, che cosa tornava a fare a
Bardia il 4° Carristi con quel I Battaglione carri? Forse per opporre una più
efficace resistenza in quella piazzaforte contro l’imminente arrivo degli
inglesi? E che difesa potevamo mai opporre gli M/11 superstiti, date le misere
condizioni in cui erano ridotti? Bisognava soltanto obbedire. Così, un po’ a
rimorchio, un po’ con i propri mezzi, quella stessa sera del 10 il Comando di
Reggimento e il I Battaglione si misero per strada. Il colonnello Aresca aveva l’animo arroventato dal dubbio
che qualcosa di irreparabile fosse accaduto al II Battaglione del maggiore Campanile, perché nessuno sapeva più dargliene
notizie e qualche frammento di informazione accennava a tragedie.
Furono impiegati due giorni e due
notti per percorrere i 25 Km che separavano Marsa Luck da Bardia. Là, ricevuti
gli ordini, gli equipaggi si stavano sistemando a difesa all’esterno della
piazzaforte, armi puntate contro tutte le provenienze, quando la notte sul 13 il colonnello ricevè un nuovo
ordine “Tornare immediatamente indietro e ripiegare su Tobruk perché il nemico,
conquistato il Passo Alfaya sulla strada costiera, sta per aggirare Bardia
anche dal deserto”.
Era l’uragano che continuava la sua
corsa in mezzo alla tempesta del ghibli.
Perché dall’Italia non arrivavano
altri carri medi? Perché l’aviazione era quasi scomparsa dal cielo?
Senza battere ciglio per tutti quegli
ordini e contrordini, il colonnello
Aresca attesa che sfilassero sulla Balbia òle ultime colonne di reparti in ripiegamento dall’Alfaya,
quindi la notte sul 15 dicembre pose i suoi uomini e i suoi mezzi sulla Balbia,
in marcia di retroguardia.
5.
Ancora
quella notte drammatica
Siamo dunque tornati a quella notte, da
cui ha avuto inizio il nostro racconto. I cinque M/11 efficienti del I
Battaglione procedevano per ultimi, con le armi cariche, pronti a voltarsi
all’indietro e a mettersi di fianco per fare fuoco, poiché una notizia era
corsa rapida come un fulmine: autoblindo inglesi, forse provenienti dal
deserto, erano nella vicinanze, con l’evidente scopo di intercettare e
distruggere le colonne in ritirata da Bardia e Tobruk.
Per quanto storditi, ubriachi di
sonno e di fame, i carristi cercavano di individuare, nel buio pesto della
notte marmarica, l’ormai nota sagoma di quei carri, per non farsi sorprendere,
uccidere o catturare anch’essi. Il colonnello era con loro. La sua presenza e
la sua calma davano coraggio e fiducia, per quanto non ne potevano dare i poveri
M/11, cingolanti, sferraglianti e quasi tutti a rimorchio. Certo, quando il 4°
Carristi era partito dall’Italia, nessuno avrebbe mai pensato a quel doloroso
ripiegamento…. Comunque, fu verso l’una di notte che un’improvvisa scarica di
colpi alle spalle fece trasalire tutti. “Autoblindo
inglesi”. Si ridò sottovoce. I proiettili da 40 di quei mezzi, accompagnati
da raffiche di mitragliatrice, esplosero sui carri, sulla Balbia. Il colonnello
dette un ordine secco: fermarsi, voltare i carri di coda verso il sud della
strada e fare fuoco.
I colpi da 37 e delle Breda 38
forarono il buio, destando sordi eco nella notte. Ma poi tacquero.
Una squadra di carristi, comandata
dal tenente Tassi, correndo curvi sul rovescio della
colonna, dalla parte del mare, si portò in coda. L’ufficiale chiese se fossero
state avvistate le autoblindo che avevano sparato. Fu risposto da un graduato
che gli era sembrato di vedere delle sagome due o trecento metri indietro. “Eccole che sparano ancora. A terra.” La
squadra continuò a procedere sempre curvi, nel massimo silenzio. Proveniente da
un reparto carri d’assalto, il tenente
Luigi Tassi, decorato per
azioni di guerra in precedenti campagne, era l’ufficiale che aveva preso il
comando della 2^ compagnia del tenente
Locatelli. Aveva subito
dimostrato d’avere tempra e carattere e di sapersi far seguire dai suoi uomini.
Durante la marcia di ritorno dallo schieramento avanzato, aveva condotto con
molta efficacia il rapporto con i suoi mezzi logori e ora stava rivelando
d’essere un assaltatore.
Ecco laggiù, ferme nell’oscurità,
sulla Balbia, due sagome di autoblindo. Le macchine erano isolate perché,
evidentemente, in missione di avanscoperta sulla litoranea per “agganciare” i
reparti italiani in ritirata. Gli equipaggi inglesi aprirono i portelli,
scesero a terra, presero a confabulare tra loto. Se ne distinguevano le ombre.
“Fuoco!”. Ordinò il tenente Tassi.
L’ordine fu esguito da una scarica di bombe a mano.
L’ufficiale e i carristi balzarono poi subito a bordo dei mezzi, presero per il
collo qualcuno che era rimasto dentro il carro stordito o ferito. Con le
pistole spianate, tennero fermo quel qualcuno, mentre altri si mettevano al
volante e avviavano il motore. Scansando i cadaveri dei morti sulla strada,
poco dopo l’ufficiale e i suoi raggiunsero la colonna.
Fi, quello,un colpo di mano
straordinario nella notte sporca del deserto, nel caos del ripiegamento. Ma per
merito del tenente Tassi fu compiuto senza esitazione. Prima
di riprendere la marcia, il colonnello fece sparare altri colpi dai 37 e dalle
Breda 38 sulla Balbia. Colpi di avvertimento. Ma nessuno più si fece avanti.
6.
Un
ordine da Tobruk
Arrivato quella notte stessa al km 6
da Tobruk, in prossimità del bivio per El Adem, il Reggimento
ricevè l’ordine di fermarsi. Un ufficiale di Stato Maggiore dette al colonnello Aresca un dispaccio da parte del comando
della piazzaforte. L’ordine là scritto diceva che il 4° Carristi doveva far
parte della cinta fortificata esterna della città. Il nemico che stava
procedendo all’accerchiamento di Bardia, doveva essere fermato ad ogni costo là
a Tobruk. Pertanto il Reggimento doveva costituirsi, con il superstite suo I
Battaglione, in “Caposaldo
Aresca”, fronte a sud, a cavallo del bivio per El Adem, comprendendo nel proprio
perimetro le batterie da 102e da 120 della R. Marina e la batteria da 149/35
dell’Esercito ivi già dislocata. Piazzando in postazione fissa tutti i suoi
carri inefficienti, il Reggimento doveva inoltre creare uno sbarramento minato
davanti al caposaldo. Al 4° erano assegnati in rinforzo: un Battaglione carri L
inefficienti, il III Battaglione del 69° Fanteria e una batteria antiaerea da
20 mm. La consegna per tutti era di resistere ad oltranza, sacrificarsi sul
posto, se necessario.
Ma non era tutto.
Un poscritto recava l’ordine che il
4° inviasse immediatamente ad Ain El
Gazala, località più arretrata sulla
litoranea, i 5 Carri M/11 efficienti di cui disponeva. Tali carri dovevano
prendere parte alla formazione di una colonna celere.
Era un colpo mancino per il
Reggimento. Ma non ci fu nulla da fare. E, dopo aver dato il relativo ordine,
il colonnello Aresca chiamò a rapporto gli ufficiali per impartire le
disposizioni relative all’impianto del Caposaldo.
Nella stessa notte, arrivati che
furono il Battaglione di carri L inefficienti, rimorchiati con autocarri, il
Battaglione di fanteria e le batterie da 20 mm. , tutti: ufficiali,
sottufficiali, carristi, truppa, pur essendo stremati si misero a lavorare di
buona lena lungo un perimetro di 12 km. per costruire trincee, postazioni per
armi automatiche, per scavare buche nelle quali interrare, in postazione fissa
e scaglionati a debita distanza, i carri medi e leggeri, per costruire ostacoli
anticarro, scavare riservette per munizioni, viveri, acqua e installare
impianti di collegamento. Gli uomini
dell’Officina reggimentale, su ordine del colonnello, andati via i cinque carri
M/11 efficienti, si rimboccarono le maniche e si misero al lavoro per riparare
alla meno peggio gli M/11 meno infortunati, così da farne muovere qualcuno
nell’interno del Caposaldo.
Gli inglesi di là non dovevano
passare.
Ma, a pensarci bene, il “Caposaldo Aresca”
sarebbe stato una difesa fissa frontale e i carri armati e le autoblindo nemici
l’avrebbero aggirato più che facilmente.
Non era però il momento di ragionare
e di fare cavilli: bisognava fare l’impossibile per tenere alto l’onore delle
armi in un’ora fattasi inaspettatamente grave per la Patria.
I giorni presero così a scorrere con
ritmi di lavoro estenuanti, mentre dal cielo l’aviazione inglese mitragliava e
spezzonava implacabile, e quasi indisturbata, la Balbia e il bivio per El Adem,
cercando di colpire soprattutto le batterie in postazione.
Per costituire il campo minato,
poiché l’aviazione italiana, arretrando le proprie basi, aveva abbandonato una
grande quantità di bombe e spezzoni nel vicino aeroporto, presso El Adem, il
colonnello, dopo una ricognizione effettuata col maggiore Rossi,
il comandate del Battaglione di fanteria, l’aiutante maggiore del 1°
Battaglione, tenente Buglioni, e alcuni altri ufficiali, organizzò
il recupero di quegli ordigni da sistemare davanti al Caposaldo. Di tale
operazione si incaricò il sottotenente
carrista Guglielmo Danzi, che
prese a far trasformare bombe e spezzoni in modo da ottenere lo scoppio a
pressione, anziché a caduta. Sarebbero diventate così vere e proprie mine
anticarro. Quel lavoro di trasformazione era molto pericoloso, ma i carristi e
i fanti lavoravano giorno e notte pur di portarlo a compimento. Da “fiamme
rosse” siamo diventati “zappatori del genio” scherzavano gli equipaggi, perché,
nonostante tutto, si cercava di mantenere alto il morale.
La posa in sito degli ordigni, poi,
veniva effettuata di notte, per sfuggire alla sorveglianza dell’aviazione
nemica che incrociava in permanenza nel
cielo di Tobruk. Venero così collocati davanti al Caposaldo circa 4000 bombe
d’aereo e oltre 10.000 spezzoni: un vero rosario di morte deposto davanti agli
M/11 in postazione fissa. Purtroppo un ufficiale di fanteria e un militare di truppa trovarono la morte
nel collocare le mine. All’esplosione volarono in aria come angeli.
Il lavoro febbrile dell’Officina
reggimentale produsse un miracolo: in pochi giorni, ben sette M/11 vennero
posti in condizioni di camminare. Il colonnello costituì con essi una
“compagnia di manovra” da impiegare all’interno del Caposaldo. Ma non c’era
niente da fare. Appena al comando della piazzaforte seppero del fatto, fu
ordinato che quei Carri, unitamente alla batteria da 20 mm., andasse a
rinforzare una colonna mobile della difesa della città.
Buonanotte. Altri Carristi che se ne
andavano, con carri isolati dal Reggimento per cui non avrebbero potuto avere
la necessaria assistenza tecnica e alla prima occasione si sarebbero inchiodati
di nuovo.
Il 25 dicembre, giorno di Natale, il
Reggimento vide partire ancora una buona metà dei suoi effettivi perché
destinati a costituire a Bengasi gli equipaggi di un Battaglione Carri M/13
(carri con armi in torretta girevole e quindi più moderni del M/11).
Così si disse. Bene. Che altro si
voleva?
Il colonnello Aresca comprese che, con tutti quei depauperamenti, gli uomini rimasti
stavano passando un brutto momento di demoralizzazione, tanto più che in quello
stesso giorno si venne a sapere come esattamente era finito il Battaglione del
maggiore Campanile.
7.
La
fine del II Battaglione
Lo apprese lo stesso colonnello al
comando della piazzaforte di Tobruk, dove quel mattino si era recato per
servizio. L’informazione era stata portata da un ufficiale della “Seconda
Libica”, salvatosi a stento dalla distruzione del “Caposaldo Maletti” e riuscito a raggiungere la truppa
in ritirata.
Ed ecco i fatti.
Il 9 dicembre, schierati all’esterno
di quella estrema posizione difensiva, i 24 M/11 supersiti del maggiore Campanile avevano fatto fronte con decisione
all0attacco sferrato dalla massa dei carri armati e autoblindo inglesi,
muovendo al contrattacco col comandante di Battaglione in testa: era una pazzia
poter pensare di opporsi a quell’oceano di fuoco che veniva avanti e dal quale
si
Sprigionava un diluvio di fuoco. La
soluzione più ragionevole sarebbe stata quella (adottata più volte dagli stessi
inglesi) di sottrarsi all’impari lotta e cercare di raggiungere il confine
libico, per riprendere il combattimento in condizioni più vantaggiose. Ma gli
equipaggi del II Battaglione non stettero a pensare a quel che si poteva o si
doveva fare per salvare la pelle, almeno in quell’occasione. Là c’era da
proteggere fino all’estremo della vita le fanterie libiche e nazionali del
“Caposaldo Maletti”. E basta.
Di conseguenza, all’ordine “Motori ! ”dato dal comandante di
Battaglione, gli equipaggi mossero tutti impavidi, sprigionando dai loro 37 e
dalle loro Breda 38 fulmini e ferro infuocato. Sparavano sulla massa dei carri
armati e sulle autoblindo, che avanzavano compatti, senza mirare e senza
fermarsi. Dove colpivano, colpivano bene. Non un colpo andava perduto, perché
non c’erano vuoti nello schieramento dei mezzi corazzati, che gli inglesi che
gli inglesi avevano silenziosamente raccolti nella retrovia, portato poi
attraverso il deserto fino nei presso del “Caposaldo Maletti” ad Elam El Nibewa
– che era, ripetiamo, il grande pilastro difensivo meridionale dello
schieramento italiano – e ora avevano lanciato in avanti.
Quanto tempo durò lo scontro?
Nessuno potrà mai saperlo con
esattezza.
Si sa soltanto che la massa corazzata
inglese, di fronte al deciso contrattacco portato dai carri italiani, si
arrestò indecisa, si sbandò. Poi, comprendendo di essere in dieci, venti contro
uno, gli inglesi si riunirono e ripresero l’attacco furiosamente. Fu un uragano
di fuoco nel quale entrò allora in piena velocità il II Battaglione quel
mattino del 9 dicembre 1940, dopo che il maggiore Campanile
aveva dato l’ordine “Motori ! “. Un
ciclone arroventato, reso apocalittico dal ghibli che aveva preso a soffiare
con violenza da sud, rovesciando valanghe di polvere e di sabbia sulla zona da
Elam El Nibewa a Sidi El Barrani. In quel gigantesco infernale scenario i 24
M/11 del II Battaglione del 4° Carristi
scomparvero tutti con il loro comandante, i loro equipaggi, letteralmente
schiacciati dalla pesante ondata dei mezzi corazzati avversari.
Non si conosce e forse non c’è alcuna
storia episodica di quel Battaglione. Può dirsi soltanto: potevano ritirarsi e
non si ritirarono; potevano arrendersi e non si arresero, preferirono morire
tutti combattendo per l’onore della loro Bandiera. E con loro anche l’intero “Caposaldo Maletti” fu sommerso. Sommerso oltre che dai
mezzi corazzati, da masse di carrette cingolate e protette, che recavano a
bordo ognuna una squadra di uomini: il nuovo mezzo tirato fuori dagli inglesi
per portare appunto nel deserto le truppe destinate all’attacco.
Il generale Maletti, come si sa, cadde combattendo alla testa delle sue truppe.
“Ora
il 4° Carristi è costituito solo da noi” – disse il colonnello Aresca, durante una brevissima Messa di
Natale sotto il capannone mimetizzato dell’Officina reggimentale, dopo aver
comunicato la fine del II Battaglione, ai pochi equipaggi del I. “da noi che, insieme ai Carristi dei carri
leggeri, ai Fanti del 69° Fanteria e a queste grosse batterie, dovremo cercare
di sbarrare il passo agli inglesi perché
non si impadroniscano di Tobruk. Noi abbiamo combattuto per sei mesi di
continuo coi nostri carri, impiegandoli fino all’estremo. Ma abbiamo fatto
tutti il n ostro dovere. Continueremo a farlo ancora pur con i pochi Carri
rimastici e collocati in postazione fissa entro le biche da voi scavate. Un destino
ingrato che non ci aspettavamo dopo i tanti combattimenti a motore rombante nel
deserto. Ma i nostri carri fermi non sono carri morti. Ci siamo noi a farli
vivere. A voi, equipaggi del I Battaglione, che sapere ora tutto sui nostro
commilitoni del II Battaglione sacrificatosi al “Caposaldo Maletti”, chiudere
in bellezza o riaprire con gloria la storia del Reggimento. La bandiera è con
noi”. Furono parole che scossero gli equipaggi. Ed essi n on si dissero
niente. Ma certamente un pensiero balenò nella mente di tutti: qualunque fosse
stato il destino del Battaglione, esso sarebbe stato degno delle tradizioni
carriste.
8.
L’organizzazione
della difesa
Ma noi, qui, diamo bando alla
retorica.
Ridotti dunque ancor di numero,
oltreché stanchi e abbrutiti, gli equipaggi non potevano da soli continuare a
scavar fosse, a fare trincee e altre opere difensive, lavorando come forzati.
Fu così che, qualche giorno dopo Natale, il comando della piazzaforte di Tobruk
assegnò al 4° Carristi una compagnia di lavoratori ausiliari. Gente disarmata e
completamente demoralizzata e sbracata che comunque, a contatto con i Carristi
e sotto il comando del Colonnello Aresca, presero a dare qualche buon
rendimento, soprattutto nella costruzione di robusti muri anticarro fatti con sacchetti
di sabbia, che venivano elevati nei tratti più deboli e più facilmente
percorribili dai carri armati e dalle autoblindo, nonché attorno alle batterie
da 120, da 102 e da 149.
Il 10 gennaio, poi, furono assegnati
al Reggimento 4 mortai da 81 mm. Con una forte dotazione, ivi comprese molte
cariche “supplementari” per lanciare le bombe a distanze superiori ai 500
metri. Il colonnello costituì con quei mortai i quattro centri di fuoco
arretrati, per l’estrema difesa del Comando e della Bandiera, che egli aveva
posto, su un rilievo del terreno, al centro del Caposaldo. Avendo ridotto gli
equipaggi dei carri in postazione fissa a due soli uomini mise quei mortai
alcuni uomini dell’Officina. In tutto e per tutto bisognava agire di ripiego.
Comunque egli sapeva di disporre di un Battaglione costituito da un comandante,
da ufficiali ed equipaggi per niente disposti ad arrendersi agli inglesi.
Il 10 gennaio, con le notizie
catastrofiche sulla situazione che arrivavano da ogni parte, soprattutto dopo
l’occupazione di Bardia , avvenuta il giorno 5 di quel mese, la vigilanza del
“Caposaldo Aresca” prese a farsi attentissima, mente i lavori di minamento e di
fortificazione procedevano a pieno ritmo. Autoblindo inglesi già scorazzavano
minacciose nei dintorni, inviando raffiche di pallottole, mantenendosi però in
lontananza per non essere centrate da qualche sventola degli M/11 italiani
interrati.
E i difensori avevano a che fare
anche con la propaganda nemica che ogni notte, con i suoi aerei ricognitori,
seminava il terreno di manifestini incitanti alla resa, minacciando in caso
contrario morte e distruzione. Ma non c’era, per tutto il lungo perimetro, un
uomo ozioso, un malato, non un ferito a riposo, nonostante le condizioni di
abbrutimento in cui tutti vivevano per la fatica, il sonno perduto, la fame, la
sete, nonché per la sporcizia dovuta al sudore, alla terra e alla polvere.
La Bandiera sventolava al centro del
posto di Comando.
Il 16 gennaio il comando della piazzaforte
mise agli ordini del caposaldo anche un tratto di fronte sul settore orientale
che, dalla testata dell’Uadi Bejat (un vallone sassoso) si sviluppava per circa
8 km fino alla costa presidiato soltanto da una compagnia e da due plotoni del
164° Battaglione complementi, da un reparto di 120 camicie nere profughi da
Bardia e da un plotone mortai Brixia da 45 mm. , costituito da artificieri di
artiglieria e impiegati fino ad allora come lavoratori. Si capisce che questi reparti non valevano un
granché. Molti uomini non avevano mai sparato nemmeno col fucile. E si voleva
che con tali uomini più alcuni mortai Brixia da 45 mm. Si fermassero i carri
armati e le autoblindo inglesi? Un’utopia vera e propria. Ma il guaio peggiore
consisteva nel fatto che il nuovo fronte, sul quale erano dislocati i reparti
stessi, era di un’estrema delicatezza e pericolosità, perché da esso sarebbe
stato facile aggirare tutto il caposaldo. Come, infatti, avrebbero potuto
resistere quegli uomini all’assalto degli australiani e dei neozelandesi
preceduti dai loro mezzi corazzati?
Il colonnello Aresca e i suoi
ufficiali se lo chiesero più volte. Comunque. Sfruttando le caratteristiche del
terreno e le costruzioni permanenti, forse si sarebbe riusciti a rendere
proibitivo il transito anche attraverso il vallone sassoso dell’Uadi Bejat,
nelle vicinanze del quale si trovava, altresì, il deposito munizioni
dell’Esercito.
Purché ci fosse stato il tempo per
fare i lavori di sbarramento e di minamento necessari.
Ma il tempo mancò.
E lo vedremo subito.
9.
Fuoco dal cielo e dal deserto
I giorni dal 16 al 20 gennaio vennero
bruciati rapidamente. I Carristi avvertivano nell’aria che, presso Bardia,
l’arrivo dell’ondata offensiva inglese sarebbe avvenuto da un momento
all’altro. Lo dicevano le molte autoblindo che comparivano all’improvviso
all’orizzonte del deserto, spiavano e poi scomparivano di corsa per non farsi
centrare da qualche cannonata. Quell’osservazione ra
ossessionante. Ma lo dicevano anche le decine di granate che gli inglesi spedivano
con le loro artiglierie, ormai vicine.
Il giorno 20 molti aerei, non
contrastati dall’aviazione italiana, sottoposero la piazzaforte di Tobruk e i
vari caposaldo a un bombardamento durato dall’alba al tramonto. Evidente lo
scopo del nemico di demoralizzare i difensori.
I Carristi se ne stettero dentro i
carri intanati nelle loro buche, per non rimanere polverizzati dalle
esplosioni. Il bombardamento riprese poi la notte dal 20 al 21, sotto una
luminaria di bengala che, sospesi nell’aria, illuminavano a giorno la città, la
Balbia e il deserto circostante, mentre le vampe delle esplosioni creavano
effetti scenografici d’una tragicità da far accapponare la pelle.
“Italiani,
arrendetevi!” – gridavano gli altoparlanti dal deserto davanti al
“Caposaldo Aresca” e anche davanti al “caposaldo Sirte”, che era stato nel
frattempo impiantato sulla nostra destra dalla Divisione “Sirte”, al di là del
Forte Pilastrino sulla Balbia.
“Italiani,
arrendetevi!” – lo gridavano persino gli aeroplani dall’alto, mentre le artiglierie
contraerei della corazzata “San Giorgio”, semiaffondata nel porto, spedivano in
aria saette filanti e luminose che poi scoppiavano come fuochi d’artificio.
Quella notte da “guerre stellari” fu davvero fantasmagorica, come più pazza
ancora si stava rivelando la resistenza a tutti, data la enorme superiorità
dell’aviazione , dei mezzi corazzati, delle artiglieri e delle divisioni di
fanteria inglesi.
E Tobruk resisteva.
E i Carristi del I Battaglione,
arroccati nel “Caposaldo Aresca”,
attendevano con calma gli eventi.
Quella stessa notte, finito il
bombardamento aereo, ebbe inizio un bombardamento dal mare. La forte squadra
navale inglese, non raggiungibile dalle artiglierie costiere italiane, martellò
la piazzaforte di Tobruk e i caposaldi fino all’alba.
Alle
4 del 21, sul margine orientale e su quello sudo della stessa
piazzaforte, e cioè proprio nei settori più deboli, cominciò ad abbattersi un
uragano di fuoco da parte delle artiglierie inglesi da Bardia, mentre il vero e
proprio “Caposaldo Aresca” veniva sottoposto a un altro bombardamento aereo che
ne distrusse varie opere di difesa e procurò la morte di alcuni Fanti e
Carristi, cos’ come furono colpite anche le posizioni del Battaglione
complementi.
L’azione fece chiaramente intendere
che l’attacco diretto contro la difesa esterna della piazzaforte stava per
iniziare. Non per niente i cannoni da 102, 120 e 149 presero ad effettuare un
tiro di sbarramento. Gli ufficiali del caposaldo carrista, dal maggiore Rossi all’Aiutante maggiore Buglioni, ai comandanti di compagnia Tassi e Limauro, e gli altri ufficiali giravano da una postazione fissa
all’altra per incoraggiare i loro uomini. “Ragazzi
– dicevano – il colonnello è lassù
nel punto più elevato del caposaldo e ordina di tenere duro”.
Per il fumo delle esplosioni non
v’era più visibilità davanti alle postazioni. E in mezzo al fumo e alla polvere
d’un tratto s’udirono sparare qua e là raffiche di mitragliatrici, armi
controcarro, mitragliere, fucili, bombe a mano. Ed ecco il rumore delle
carrette cingolate con fanteria a bordo e dei carri armati inglesi. Non era
possibile vederli, ma erano là, davanti alle postazioni. Ogni tanto
un’esplosione violenta faceva capire che qualcuno di quei mezzi era saltato su
una mina. Scorazzavano, cercando di scoprire le vie di accesso al caposaldo,
per quanto resi prudenti dalle mine e dalle granate sparate a zero dalle
batterie.
Presero così a passare le ore, tra
pausa delle armi portatili, violenti concentramenti di artiglieria, tiri di
controbatteria, arrivo di proiettili da 40 da autoblindo lontane ed esplosioni
di sventole da 88 delle batterie mobili del deserto, incursioni e spezzona
menti di aerei inglesi. L’aviazione italiana, ripetiamo,purtroppo sembrava
assente dal cielo della battaglia.
Verso le 8 un violento bombardamento
aereo fu effettuato sul rovescio del Caposaldo. Ed ecco che le artiglierie da 88 del deserto ora allungavano il tiro
sulle postazioni orientali e meridionali del perimetro. Gli inglesi dovevano
aver individuato il punto “debole” dello schieramento difensivo e lo stavano
martellando per distruggerne le postazioni a una a una. Guai se ci fossero
riusciti: sarebbero penetrati immediatamente dal rovescio nel Caposaldo. Il
colonnello fece diramare un ordine fulminante: “Allarme generale! Ogni uomo stia al proprio posto di combattimento,
rifornito di viveri per l’intera giornata”. Vennero così distribuiti, in
mezzo alla baraonda delle esplosioni, due pagnotte ed una scatoletta di salmone
a testa. I Carristi che si trovavano qua e là nelle buche a parlottare con gli
amici, corsero ai loro carri, aprirono i portelloni, s’infilarono dentro,
richiusero. Manovrarono i congegni di caricamento e sparo delle Breda 38,
puntarono bene i 37 al di sopra dei sacchetti di sabbia delle postazioni e rimasero
in attesa ansiosa.
10.
L’inizio
dell’attacco
Verso le 9 un altro violento
bombardamento aereo fu effettuato sul rovescio del Caposaldo. Le artiglierie
inglesi allungarono dal deserto il tiro sulle postazioni difensive centrali.
Dovevano averle individuate. E stavano serrando sotto i carri armati e le
carrette cingolate con la truppa. I carristi li scorgevano dalle fessure degli
M/11 così come scorgevano le esplosioni dei mezzi che continuavano a saltare
sulle mine. Alcuni fuggivano in fiamme per poi esplodere più lontano, ma altri
mezzi e altri ancora serravano sotto. Erano cento, mille? Sembravano una marea.
Il maggiore Rossi, dopo aver
scambiato qualche parola col colonnello,
ordinò all’aiutante maggiore e ai comandanti di compagnia di non far sparare
dagli equipaggi per non essere individuati. Bisognava far fuoco solo alle brevi
distanze.
Ma non tardò molto che le distanze
presero a raccorciarsi. Evidentemente, dopo che tanti erano saltati in aria, i
carri armati e le carrette cingolate sopravvenienti trovavano varchi nel campo
minato, si avvicinavano pericolosamente alle postazioni del M/11 interrati. E
fu allora che echeggiò preciso, da un carro all’altro, l’ordine del colonnello “Fuoco! La resistenza è a oltranza”. Gli
equipaggi puntarono le loro armi conto le sagome avanzanti. Da tutti i carri si
prese a sparare con i pezzi e con le Breda. Il fronte del Caposaldo si coprì di
una coltre di fumo. Esplosioni, vampe, fiammate. Vari carri armati e carrette
cingolate inglesi restavano immobilizzati davanti alle postazioni, alcuni
equipaggi ne uscivano terrorizzati, trasformati in torce umane.
Di fronte al micidiale e forse
inaspettato fuoco di sbarramento del Caposaldo italiano, la mass di ferro
avanzante ebbe una battuta d’arresto, prese ad arretrare. Fu allora che le
artiglierie lontane ripresero a martellare il Caposaldo. I colpi esplodevano
fra i carri, fracassavano gli ultimi automezzi Lancia RO sul pianoro presso il
Comando, sollevavano fontana di fumo, di terra, di sassi mentre le schegge
sibilavano nell’aria sinistramente. Da parte loro, le batteria da 149 e quella
da 102 e da 120 della Marina. Dall’interno del perimetro tiravano sventole alla
maledetta sul mare di ferro che stava lì di fronte e non osava più avanzare.
Tutti i difensori erano sicuri di
dover cedere, prima o poi, ma volevano vender cara la pelle. Non per niente
appartenevano ad un Battaglione che aveva già dato prove di avere uomini di
fegato.
11.L’infiltrazione alle spalle
Ore 9,10. Presero ad arrivare
improvvisamente cannonate d’infilata sulla sinistra e alle spalle del
Caposaldo. Quel che si era temuto si stava avverando. Il Battaglioni
complementi di fanteria, lontano dagli ultimi M/11 alcuni chilometri, dopo un
assalto di carri armati non contrastati da armi adeguate, cedette di schianto e
i mezzi nemici, seguiti da carrette cingolate cariche di truppa, s’infilarono trale postazioni, percorrendo l’Uadi Bejad. La batteria da
120 della Marina abbasso i pezzi e prese a sparare a zero. Ma la marea avanzava
dilagando per ogni dove,s’avvicino alle linee tenute dai carri L. E il tragico
era che gli equipaggi degli M/11, presi alle spalle, non potendo in alcun modo
muovere i loro carri, non erano in grado di reagire con le armi. Sul caposaldo
passavano a volo radente squadriglie di cacciabombardieri che mitragliavano e
spezzonavano le postazioni, l’osservatorio, il comando.
Alle 10, il nemico aveva eliminato
tutta l’organizzazione difensiva posta a oriente della strada Tobruk – Bardia,
nel tratto Idranti – Km. 1,500, e cioè i reparti del 164° Battaglione
complementi, la batteria da 120 della Marina, i centri di fuoco attestai presso
il bivio di El Adem. I reparti corazzati inglesi ora stavano dirigendo
compatti, seguiti dalle carrette cingolate, verso la zona del perimetro ov’erano gli M/11 in postazione fissa, scaglionati a 10 –
15 metri di distanza l’uno dall’altro. Che dovevano fare gli ultimi equipaggi
del I Battaglione in quelle condizioni?
12.
Ore di
fuoco
Alle 10.30 i reparti corazzati
inglesi, seguiti dalla marea delle basse carrette cingolate cariche di
fanteria, presero a impegnare direttamente, dopo aver travolto i Carri L, gli
stessi M/11.più di una volta avevano ingaggiato con essi duelli mortali nel
deserto, non raramente ne avevano ricevuto la peggio e si erano allontanati
battuti su tutta la linea. Ma ora se li vedevano là fermi, sprofondati in buche
circondate da sacchetti di sabbia, in “postazione fissa”. La rabbia della
rivincita era enorme. E i combattimenti si fecero subito violenti perché i
Carristi italiani che erano in condizioni di sparare lo facevano senza
risparmio, mandando in fiamme varie carrette cingolate e centrando più di un
carro armato che , nel suo movimento entro il Caposaldo, si veniva a trovare
proprio di fronte al cannone puntato di qualche M/11 più che nascosto.
Il tenente Tassi,
uscito temerariamente dalla sua cabina, andava da un carro all’altro del suo
reparto. “Coraggio, ragazzi, resistete e
sparate appena gli inglesi vi vengono a tiro”. Come faceva ad andare così
sicuro in mezzo a quel diluvio di fuoco?
Per alleggerire la pressione dei
mezzi corazzati inglesi che serravano guardinghi contro le postazioni degli
M/11, il colonnello cominciò a scatenare i suoi centri di fuoco arretrati. I
mortai da 81 presero a martellare la massa nemica, apportando scompiglio e
confusione: le loro potenti bombe piovevano terribilmente esatte tra le
carrette cingolate, mentre le Breda 38 degli stessi M/11 che potevano far
fuoco, falciavano le fanterie, composte di australiani e neozelandesi, che
saltavano a terra dai loro mezzi per andare all’attacco. Il molto fumo delle
esplosioni, che rendeva il terreno quasi invisibile, permetteva in parte la
loro manovra.
Alle 10.25 si ebbero, infatti, le
prime infiltrazioni in profondità alle spalle del Caposaldo. Era inevitabile.
Gruppi di fanteria nemica si avvicinarono con le loro carrette sul retro degli
M/111 per catturarne gli equipaggi, che potevano difendersi soltanto lanciando
bombe a mano o spezzoni d’aero dagli sportelli velocemente aperti e chiusi. La
superiorità nemica degli attaccanti era enorme. Il colonnello fece dirigere il
tiro dei mortai negli spazi tra le postazioni fisse, col pericolo di centrare
qualcuna di queste. Tale fuoco creò sorpresa e confusione tra gli avversari.
Trovandosi fuori delle loro carrette cingolate, costoro cercarono scampo fin
sotto lo scafo degli M/11 che, quando potevano, continuavano a sparare su
chiunque si fosse presentato a tiro.
Il tenente Tassi
era tornato alla cabina di combattimento. Trovandosi in posizione favorevole,
stava sgranando rosari di pallottole. Ma un colpo di carro armato inglese,
sparato da breve distanza, centrò il suo M/11, esplose e ferì l’ufficiale in
più parti. Nonostante facesse sangue dalla testa e dalle mani, Tassi continuò a sparare.
Ma
la marea degli attaccanti aumentava. I carri inglesi facendo fuoco
passavano già sulle buche ove erano i difensori stremati e schiacciavano i
superstiti. Quasi tutte le fanterie scesero dalle carrette cingolate. Erano
centinaia di uomini. Eppure non riuscivano a sopraffare i difensori del
Caposaldo che, con le bombe a mano e gli spezzoni d’aero si difendevano
disperatamente. Altri M/11, colpiti da carri armati piazzatisi dietro i ripari
delle postazioni esplosero ed avvamparono. Altri carri armati inglesi e
carrette cingolate si trasformarono anch’esse in base di fuoco, mentre i mortai
da 81, dal centro del Caposaldo, continuavano la loro azione di lancio di bombe
a tergo e ai fianchi degli invasori.
13.
S’avvicina
la fine
Alle 11.30 altre fanterie nemiche, appoggiate
da nuovi carri armati, sempre provenienti dai valloncelli degli Idranti, e cioè
alle spalle del Caposaldo, attaccarono le postazioni dei mortai del Comando di
Reggimento, finalmente individuate. Il colonnello, comprendendo che ormai si
stava apprestando la fine, ordinò di raddoppiare la velocità di tiro su quegli
attaccanti: costoro dovevano trovare pane per i loro denti, lì presso la
Bandiera. Senonché il comandante dei mortai comunicò ben presto che ormai aveva
uno scarsissimo numero di cariche supplementari e che perciò non avrebbe potuto
concentrare il fuoco su bersagli a distanze superiori ai 500 metri. “Spari fin dove può – gli rispose Aresca
– ma non smetta un attimo di tirare”.
Alle 12 la situazione divenne
criticissima. Gli M/11 ed i pochi carri L interrati, con equipaggi ancora vivi,
vennero assaliti alle spalle da decine di carri armati e da carrette cingolate.
“Resistete fino all’ultimo” – mandò a
dire, al maggiore Rossi, il colonnello. Il maggiore Rossi, che, già ferito, andava e veniva da
un carro all’altro, noncurante delle esplosioni, rispose al portaordini che il
I Battaglione avrebbe resistito fino all’ultimo. Il suo aiutante maggiore,
tenente Buglioni, si recò addirittura in motocicletta a trovare i carri siti
nei posti più lontani del perimetro, per assicurare tutti che il Battaglione
era ancora in pieno combattimento e che nessuno aveva ceduto.
E, infatti, nessun equipaggio apriva lo sportello e si
arrendeva. Gli equipaggi aprivano il portello del carro solo per lanciare le
ultime bombe a mano e gli ultimi spezzoni d’aereo di cui disponevano,
richiudendo poi di colpo, fino a che, colpiti in pieno nei serbatoi, i carri
esplodevano o prendevano ad ardere. I carri L
ardevano ormai tutti con il loro equipaggi.
E non poteva non essere la fine.
Infatti, la schiacciante superiorità
avversaria di mezzi e di uomini, pur se lentamente, dopo sei ore di lotta stava
per avere il sopravvento, anche perché i pochi
equipaggi superstiti non avevano quasi più munizioni.
Ed erano le 13 quando gli attaccanti
serrarono sotto per procedere alla cattura degli equipaggi degli ultimi M/11
ancora “vivi”. Lo facevano con estrema prudenza. Australiani e neozelandesi si
avvalevano come scudo, di Carristi già prigionieri per appressarsi e poi
schiavardare gli sportelli. Catturavano, però, solo quegli equipaggi che ,
feriti, erano in condizioni di non più combattere, mentre la resistenza non
veniva meno in quei carri in cui si disponeva di qualche bomba a mano. Gli
inglesi, inoltre, facevano capire che gli equipaggi che davano fuoco al carro
prima di abbandonarlo –come qua e là stava accadendo – sarebbero stati passati
per le armi. <furono molti, così, ad essere uccisi a bruciapelo, come vene
furono altri finiti con scariche di mitra appena usciti con i vestiti in
fiamme.
Altri carri ed altre carrette
cingolate si avvicinarono prudentemente alle spalle della postazione del tenente Tassi. Il comandante della 2^ compagnia,
dopo aver tanto incoraggiato i propri uomini, volle dare l’esempio della
suprema resistenza.
Aperto con uno scatto lo sportello
superiore, si sporse fuori e fece piovere sulle carrette quattro bombe a mano, leultime di cui disponeva. “Resistete, Carristi …..” – gridò. Fu un attimo. Una raffica lo
prese in pieno petto ed egli ricadde straziato e sanguinante nella cabina. Due
colpi di cannone di un carro armato, inoltre, si rovesciarono sul suo M/11,
esplodendo nell’interno e ferendo il pilota.
S’udì allora un rumore di motori
diesel e un susseguirsi di colpi da 37 contro quel carro e la carretta cingolata.
Come suscitati da magia, erano apparsi sul pianoro tre M/11. Cosa stata
avvenendo? Stava avvenendo che gli uomini dell’Officina reggimentale, dopo un
lavoro estenuante condotto giorno e notte ed anche sotto le bombe e le
pallottole, proprio quel mattino erano riusciti a mettere in moto tre M/11 “di
manovra” che, sferraglianti e cingolanti, ora scendevano dall’osservatorio per
un disperato contrattacco. Il 4° carristi voleva finire all’ombra dei suoi
motori.
Ripetiamo: erano solo tre carri, con
tre equipaggi del I Battaglione, comandati dal capitano La Rosa, ma sembrava che sparassero per cento, muovendosi lentamente.
Le carrette cingolate e i carri armati inglesi, si allontanarono, ma due delle
prime, rimaste inchiodate al suolo, presero a bruciare mentre gli australiani
che le montavano, saltati a terra, correvano a rifugiarsi sotto due M/11 lì
presso interrati.
I tre carri del 4°, zoppicanti,
presero ad inseguire quelli inglesi in fuga. Ma che cosa credevano di fare ….?
Ribaltare le sorti della situazione del Caposaldo? Qualcuno pensò che dentro
quei tre carri M/11 vi fossero equipaggi improvvisamente impazziti …. Comunque
dal Comando piovevano ancora sui carri inglesi sparpagliati tra le postazioni,
le terrificanti bombe da 81. Significava che il colonnello era ancora vivo?
Doveva essere ancora vivo perché la Bandiera del reggimento sventolava ancora.
14.
Ad
oltranza
Il terreno del caposaldo era
disseminato di cadaveri, di feriti e di moribondi: molti M/11 erano
schiavardati, molti carri L bruciavano; bruciavano qua e là carri inglesi e
carrette cingolate. Qualche M/11 resisteva ancora caparbiamente.
AD un dato momento i carri inglesi
vennero ancora avanti e concentrarono il loro tiro proprio verso il pianoro sul
quale era l’osservatorio e dal quale si stavano ora sprigionando colonne di
fumo; il colonnello, ancora vivo, aveva dato ordine di distruggere tutto ciò
che vi fosse ancora da distruggere. Aveva dato quell’ordine perché vedeva ormai
giunta irrimediabilmente la fine, poiché nessun aiuto c’era da aspettarsi
dall’esterno: anche la piazzaforte di Tobruk, mitragliata, bombardata,
cannoneggiata da mare e da terra, stava trascorrendole sue ultime ore di
resistenza.
Qui, sul “Caposaldo Aresca”
bruciavano le tende del comando, il capannone dell’Officina, i tavoli, i
magazzini, i documenti: tutto era in fiamme ed un fumo nerastro si alzava nel
cielo mentre il colonnello, rincuorando chi gli era vicino degli ufficiali, dei
sottufficiali e dei carristi superstiti, stava dirigendo direttamente l’azione
dei centri di fuoco. Tutti lassù sapevano di essere gli ultimi difensori del
Caposaldo. Sapevano che erano caduti, tra i molti, il comandante del
Battaglione, maggiore Rossi, il tenente Tassi,
il tenente Basso, il sottotenente Sabbatucci, il sergente
Olivi, mentre erano rimasti più o meno
gravemente feriti il tenente Da
Murtas, il tenente Limauro, animatore instancabile della sua compagnia, il sottotenente Caola, il sottotenente Casotto e i loro uomini, caporal maggiore Mora, caporale
Ravelli, Anversa, Marchi, come
pure il tenente Scarano, il carrista Carnacina, il sergente
Grimaldi, il sergente Calò,
il sottotenente Piras.
Il tenente medico del Battaglione, in
buca protetta, medicava alla meno peggio i feriti che gli venivano portati, disnfettandoli con alcool perché l’autocarro Lancia RO
dell’infermeria era andata anch’esso distrutto.
I carri armati inglesi serrarono
sotto. Passando tra i cadaveri, i feriti
e le carcasse dei mezzi bruciati, circondarono in pieno l’osservatorio: venti,
trenta carri armati, seguiti a distanza da una moltitudine di cingolette, che
sputavano fuoco. Unico riparo dei supersiti era la buca sul perimetro della
quale stava piantata la Bandiera. Ed ecco ciò che i superstiti carristi videro:
i tre M/11 “di manovra”, che avevano fatto ritorno presso il comando e,
appostati a un lato del cocuzzolo, stavano facendo fuoco con tutte le loro
armi, d’un tratto si mossero. Corsero in seconda, in terza, sferragliando,
facendo fuoco con i 37 e le Breda 38 verso i mezzi nemici che avanzavano a semicerchio.
Parevano draghi feriti e arrabbiati che sputassero sangue. Lo scontro
ravvicinato impose una sosta all’ondata nemica. Erano pazzi quegli italiani? O
erano l’avanguardia di altri carri che stavano per uscire dalle viscere del
cocuzzolo? Ma i tre M/11, serrati da ogni parte, bersagliati da mille colpi,
finirono per fermarsi ed esplodere. Gli equipaggi, però, non vollero arrendersi
nemmeno allora. Era gente del I Battaglione del 4° Carristi: in piena velocità
di scagliarono contro i più vicini carri armati inglesi: tre vampate, tre
esplosioni, un groviglio di corazze, di cingoli, di rulli, di motori, che
costituivano un solo braciere.
Un poeta avrebbe detto che quello era
un sacrificio alla pallida dea, che si aggirava su quel campo di battaglia
avvolta neri suoi lugubri veli neri, per chiudere amorevolmente gli occhi a
coloro che cercandola, erano caduti da eroi.
A cominciare dal già ricordato
comandante del I Battaglione, maggiore
Angelico Rossi.
Ma, lassù, non c’erano poeti.
15.
Bandiera
in fiamme
Le ali della massa corazzata nemica
ripresero l’avanzata. Tra loro e il Comando erano rimasti ormai solo i centri
di fuoco, che continuavano a far piovere bombe
dalle buche ove erano piazzati, per creare uno sbarramenti intorno alla
Bandiera.
Eppure, qualcosa di assurdamente vero
accadde ancora. Un M/11 di quell’indomito Battaglione, duro a morire, giunto
sferragliando chi sa come nelle vicinanze della periferia del Caposaldo, prese
a far fuoco contro gli assalitori, sparando cannonate a man bassa. Ma il suo
tiro, che pure creò un certo sbandamento tra gli inglesi, non durò molto:
centrato da varie sventole ben più potenti del suo 37, il logoro M/11, che era
stato messo in moto con grande fatica
negli ultimi momenti, venne ben presto messo fuori combattimento. Lo
comandava il tenente Buglioni che venne estratto ferito con un altro carrista,
pazzo e temerario come lui.
Fu dopo quella ultima sortita che i
carri armati inglesi serrarono decisamente sotto. I centri di fuoco vennero
sopraffatti e sommersi uno per uno. L’ultimo fu duro a morire. Lo comandava il tenente Floriani. Finite le munizioni, venne
circondato. Ma tutti i superstiti videro che l’ufficiale, benché sanguinante
per varie ferite, non si arrese: lui e i suoi due o tre carristi presero a
difendersi lanciando spezzoni d’aereo contro le fanterie che, scese dalle
carrette cingolate, avevano loro intimato di alzare le mani.
Floriani non le alzò. E fece capire
che aveva alcuna intenzione di alzarle. Fu raggiunto da altri colpi che lo
fecero cadere in mezzo ai suoi uomini (3).
La resistenza cessò.
Ormai tra gli assalitori e il Comando
non vi erano più ostacoli.
Ma, mentre gli M/11 del Caposaldo,
vicini e lontani, finivano di ardere e da qualcuno partivano le raffiche di chi
sa quale superstite, mentre ai piedi dell’osservatorio le granate e le
pallottole uccidevano o ferivano gli ultimi difensori e nel cielo passavano e
ripassavano rombando stormi di aerei inglesi, il colonnello Aresca, che aveva
animato quella resistenza, dette un ordine secco e perentorio agli uomini che
lo circondavano a tutti quelli che, feriti o incolumi, poterono udirlo: “Attenti! Presentate le armi!”.
Fu in realtà una voce strana e sorda
la sua, ma fu la voce di un comandante.
I supersiti del I Battaglione, quasi
tutti sbandati, sporchi di fame, di polvere, di fumo (e tra essi il caporal
maggiore Primo marini , con cui abbiamo iniziato il nostro resoconto),
compresero. Infatti, il comandante del Reggimento, senza tenere conto delle
armi puntate contro di lui, salì sul cocuzzolo, afferrò un lembo della
Bandiera, già ferita e lacerata anch’essa da molte pallottole, e la portò alle
labbra. Un istante dopo dalle sue mani si sprigionò una fiamma: la bandiera del
4° Carristi avvampò in un attimo!
Fu un momento irreale e assurdo in
quell’ambiente corrusco di battaglia?
Fu un momento non vero, tramandato
solo dalle voci dei morti?
Fu un momento reale.
Gli stessi inglesi, australiani e
neozelandesi che vi avevano assistito, erano rimasti sconcertati e incapaci di
compiere un qualsiasi gesto per impedirlo. Anzi, dopo qualche momento, gli
assalitori circondarono l’osservatorio da ogni parte.
Voci concitate si levavano tra loro.
“Venire avanti, colonnello Aresca”
intimò una di quelle voci.
Gli ufficiali, i sottufficiali e i
carristi presenti intuirono che quella gente voleva passare per le armi, lì sul
posto, ai piedi di quella Bandiera in fiamme, il comandante del Caposaldo che,
in supremo atto di sfida, non aveva permesso ai vincitori di impossessarsi del
drappo quale trofeo di guerra. Senza alcuna esitazione, infatti, tutti si
schierarono davanti a lui con le armi spianate.
Uno degli assalitori mirò diritto,
preciso. Fu un attimo: il sergente
maggiore Mittica, che
si trovava a fianco al colonnello, ed era stato uno dei protagonisti delle
disparate azioni dei centri di fuoco, si fece avanti rapidamente e la
pallottola esplosiva, sparata dall’inglese improvvisamente disorientato, lo
prese in pieno ad una gamba, sfracellandogliela. Ma il colonnello era stato
risparmiato (4).
Un ufficiale nemico si fece allora
avanti, ordinando ai suoi di non ripetere
l’aggressione e salutando militarmente, offrì al colonnello Aresca
l’onore delle armi. Aveva indubbiamente compreso la trascendenza del momento.
Quello del sottufficiale fu l’ultimo
sangue che tinse di rosso la fine del $° carristi e del sui I Battaglione.
E mentre la massa corazzata e
meccanizzata riprendeva la sua marcia verso Tobruk, i superstiti ufficiali,
sottufficiali e carristi incominciarono ad
avviarsi verso il loro destino di prigionieri.
______________
Nel gran cielo della Marmarica, a sud
di Tobruk, quando in certe sere il sole naufraga sull’orizzonte del deserto in
un azzurro oceano di sangue e d’oro, qualcuno crede di vedere fiamme nel
trionfale splendore del tramonto.
Non è un miraggio.
Forse sono le fiamme di cui
idealmente avvamperà in eterno i suoi Caduti la Bandiera del 4° Reggimento,
alla quale, dopo la guerra, fu conferita la massima decorazione al Valor
Militare, allorché si venne a sapere, come una vampata di leggenda fatta di sangue,
di intrepido coraggio e di altissimo senso dell’onore militare, tutta la storia
del “Caposaldo Aresca”.
____________
Roma, marzo 1984
NOTE
(1)
Il
tenente giuseppe Locatelli, il sottotenente Leo Todeschini, da Zevio (Verona) e
il sergente Umberto Dianda, da Lucca, furono decorati di Medaglia d’oro al
Valor Militare.
(2)
Al
tenente Giuseppe Locatelli, di Parma, fu conferita la Medaglia d’Oro al Valor
Militare “alla memoria”.
(3)
Il
tenente Marcello Floriani, da Roma, fu decorato di Medaglia d’Oro al Valor
Militare.
(4)
Al
serg. maggiore Pietro Mittica, da Pizzo calabro, fu conferita la Medaglia d’Oro
al Valor Militare.
ELENCO ALLEGATI
-
A = Planimetria del Caposaldo Aresca;
-
B = Specchio delle perdite subite dal 4° Rgt. carrista dal 10
luglio 1940 al 21 gennaio 1941 (a firma del Colonnello Aresca);
-
C = Specchio delle perdite subite dal I Battaglione nel
combattimento del 21 gennaio 1941 (a firma del Cap. Buglioni).
ALLEGATO
“A”
|
ALLEGATO
“B”
|
ALLEGATO
“C”
|